Ripensando alla mia infanzia mi chiedo come sono riuscito a sopravvivere. Naturalmente è stata un’infanzia infelice, sennò non ci sarebbe gusto. Ma un’infanzia infelice irlandese è peggio di un’infanzia infelice qualunque, e un’infanzia infelice irlandese e cattolica è peggio ancora.

Francis “Frank” McCourt è il primogenito di Angela Sheehan, irlandese cattolica, e di Malachy McCourt, nordirlandese presbiteriano, che a detta di tutti ha un modo di fare strano (cosa vuoi aspettarti da uno di su?), ma si dichiara fermamente convinto (meglio se dopo qualche bicchiere) di voler morire per l’Irlanda libera. Proprio mentre il sogno americano sconvolge le vite di milioni di europei, i McCourt vanno controcorrente: subito dopo la scomparsa della loro quinta figlia, Margaret, morta nel sonno ancora neonata, lasciano il loro appartamento di Brooklyn con i quattro figli e fanno ritorno in patria.

 

Frank cresce nell’Irlanda degli anni trenta e quaranta. La carestia, l’alcolismo dilagante, le malattie che si portano via chiunque, il dramma quotidiano della sopravvivenza, ma anche gli inevitabili riti di passaggio che fanno di un bambino un adolescente e di un adolescente un uomo, pronto a riprendere in mano la propria vita: nel 1996, molti anni dopo aver fatto ritorno in America (che paese meraviglioso!) e con una carriera da insegnante alle spalle, McCourt ripercorre i primi vent’anni della propria vita con dolcezza e spontaneità, lasciando che sia la voce inesperta e pura di se stesso bambino a raccontare la storia. Con parole schiette e un’impertinenza che solo l’infanzia può permettersi, Frank racconta l’Irlanda e le sue contraddizioni, non scordandosi mai di lasciare un sorriso tra le righe.

 

Il padre Malachy ha imparato quel poco che sa nei fossi, quando studiare era ancora un privilegio di pochi, e fa della propria fantasia da cantastorie un mezzo di sopravvivenza necessario; il folklore irlandese, la religione e le tradizioni sono, agli occhi del piccolo Frank, favole solo sue, come solo suo è il padre che al mattino, quando non si è bevuto la paga settimanale al pub, gli legge piano il giornale e gli racconta del grande De Valera di Dublino, di Mussolini, Hitler e Franco (e se non fosse stato per Hitler, come avrebbero fatto gli irlandesi a trovare lavoro in Inghilterra e a mandare a casa il vaglia da cinque sterline per far mangiare la famiglia?).

 

Con una prosa che cresce e si evolve insieme al protagonista, capitolo dopo capitolo, Frank ci racconta una vita che, come milioni di altre, è verità concreta e straordinaria; una storia di semplicità troppo umana, filtrata dall’innocenza e dallo stupore dell’infanzia, che impressiona per la leggerezza spontanea e mai forzata. McCourt conosce il bambino che c’è in noi e si rivolge prima di tutto a lui, con parole semplici e forti, scrivendo un’autobiografia che è, prima di tutto, un inno alla vita e alla sua complessità. Le ceneri lasciate dalle sigarette della madre, schiava del vizio per sfuggire al dolore della mancanza e alle necessità più elementari, sono l’infanzia di milioni di irlandesi, che da bambini hanno imparato a sopravvivere trovando il positivo e la poesia in qualsiasi cosa.

 

Un romanzo da leggere con pazienza e semplicità, cercando in Frank il bambino e l’adolescente che anche noi siamo stati. Se, all’ultimo capitolo, non sarete riusciti a ritrovare un po’ di fiducia nella vita, probabilmente non avete letto abbastanza attentamente.

Riprovateci.

 

Frank McCourt, Le ceneri di Angela – 1997, Adelphi – 377 pagine

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